AMBITI DI INTERVENTO IN CUI OPERO



   - timidezza - stress  - depressione - 

- RABBIA - 

FOBIE,PAURE,PANICO - ANSIA - 

DIPENDENZA - FIDUCIA IN SE' STESSI - 

COMUNICARE CON I FIGLI - PROBLEMI DI COPPIA - 

SOSTEGNI POST PARTUM - MOTIVAZIONE - 

ACCRESCERE L'AUTOSTIMA - GESTIONE DEI CONFLITTI - 

MIGLIORARE LE TUE CAPACITA' RELAZIONALI - 

MIGLIORARE L'EQUILIBRIO TRA VITA PRIVATA E VITA LAVORATIVA

 - PER GENERARE UNO STATO DI COMPLESSIVA SODDISFAZIONE DELLA PROPRIA VITA -  PER ALLEVIARE DOLORI FISICI DISFUNZIONALI DI ORIGINE PSICOSOMATICI PER L'ARMONIA POSTURALE








La depressione



CAUSE, SINTOMI E TIPI DI DEPRESSIONE

Gli esseri umani si stancano. Questo è un dato di fatto.
Può capitare di stancarsi di studiare, di lavorare, o addirittura di vivere: è possibile per chiunque, in un certo momento della propria vita, avere un “crollo improvviso”.
La depressione è spesso definita anche “il male che oscura la voglia di vivere”.
Ma che cosa significa “depressione”? Letteralmente la depressione corrisponde ad “una caduta di pressione”, è un venir meno della tensione nervosa o psicologica.
Lo stato depressivo è dunque un’alterazione dell’umore che provoca alterazioni delle funzioni psicologiche e somatiche; è uno stato diverso, dunque, dall”abbattimento morale, uno stato di disagio facilmente sperimentabile da chiunque, determinato da stanchezza, stress o dall’accadimento di qualche evento spiacevole.
Le cause della depressione possono essere diverse: se la causa ha un’origine organica, lo stato depressivo può essere determinato ad esempio da una patologia come il diabete, l’ipertensione o la neuroastenia; oppure l’origine può essere psicologica, e in questo caso può essere a volte il risultato di una predisposizione familiare.
Si distinguono una depressione lieve, caratterizzata da abbassamento dell’umore, caratterizzato fondamentalmente da un sentimento diffuso di pessimismo relativo alla propria progettualità e una scarsa capacità di gestire la propria vita quotidiana.
La depressione grave è invece una vera e propria patologia, che si manifesta spesso quando la struttura della personalità del soggetto, già fragile, subisce un’ulteriore frammentazione a seguito di un evento traumatico.
La depressione grave è caratterizzata da disperazione, disturbi dei processi del pensiero, come deliri e allucinazioni, da una radicale trasformazione del rapporto con la realtà; si manifesta in questo caso con sentimenti di inadeguatezza, difficoltà a condurre la vita di tutti i giorni, una profonda fatica ad affrontare la giornata, l’incapacità di provare piacere o interesse per qualsiasi cosa (anedonia), sensi di colpa e sentimenti di inutilità, ansia che può trasformarsi in angoscia, tendenza all’isolamento sociale.
I tratti fondamentalmente caratterizzanti sono dunque la mancanza di autostima e di progettualità.
Chi soffre di depressione è facilmente riconoscibile anche nell’aspetto: appare malinconico, taciturno, inerte. Lo caratterizzano un rallentamento motorio nella mimica facciale e nella gestualità, in quanto è sufficiente una piccola azione per stancarlo.
Trascura il proprio abbigliamento e la cura della propria persona.
Tra i sintomi fisici possono comparire: insonnia o comunque disturbi del sonno,   mal di testa, ipotensione, scarsa capacità di concentrazione, sensazione di grande spossatezza, indecisione o esitazione, manie, disturbi della vista.
Una caratteristica tipica di chi si sente depresso è l’abulia:
E’ nota l’affermazione d’Amiel: “Amare, sognare, sentire, apprendere, comprendere: posso fare tutto, purchè non mi si costringa a volere…”
Per il depresso la più grande difficoltà sta infatti propria nel “volere”; egli desidera trasformare un’idea in azione, ma non ci riesce. Il volere, quindi la capacità di determinazione e volontà, non scattano mai e si fa sommergere dall’inerzia.
Questa mancanza di volontà, definita anche “abulia”, nelle forme più gravi  rende difficili, se non impossibili, anche le azioni più facili e che fanno parte del quotidiano.
Quando è meno grave, il depresso compie una serie di piccole azioni, dispersive, senza vigore e perseveranza.
Frequentemente mi sono sentito dire dai mie clienti che affermavano di sentirsi depressi  queste parole: “so che dovrei tenere pulita la casa, spolverare, fare le pulizie, vorrei farlo, ma non ci riesco, è una fatica insormontabile e mi vergogno con mio marito che si aspetta che lo faccia; provo a reagire alla mia pigrizia e mi disperdo in una serie di piccole idee, che abbandono ancora prima di realizzarle e questo mi deprime ancora di più”.
Il caso di Loredana
Loredana, un brillante avvocato, a un certo punto, proprio al culmine della sua carriera, dovette abbandonare il lavoro, in quanto si sentiva talmente depressa da non riuscire più ad affrontare la giornata. Così mi spiegava il suo grande malessere: ”mi sento  imprigionata, in un circolo vizioso fatto di paura, ansia, rabbia, depressione. Fisicamente respiro con affanno, percorsa da mille paure di ogni tipo: di essere aggredita, umiliata, giudicata da chiunque incontri, conosciuto o sconosciuto che sia. Non riesco più a guidare per lunghi periodi senza temere di essere travolta o investita da qualcuno che mi arriva addosso. Sono sempre indecisa ed esitante, mi occorre un’ora per acquistare una matita. Sono stanca di tutto, desidero chiudere gli occhi e non aprirli più, mi sento incapace di vivere e mi giudico spietatamente per la mia incapacità di prendere in mano la mia vita..”
Nei casi più gravi è impedita ogni azione: chi si sente depresso si confina a letto con il suo fardello di penosi stati psichici che lo fanno soffrire enormemente, in quanto è del tutto consapevole di tutti i fenomeni che caratterizzano la sua depressione, ma non è capace di gestirli.
Spesso si sente accusare dalle persone che gli stanno accanto di pigrizia, inettitudine, di cattiva volontà. Ma è proprio la mancanza di volontà, la conseguenza della sua depressione. L’abulia infatti è un sintomo della depressione, non è la depressione stessa.  Quando scompare la depressione scompare anche l’abulia.
C’è un celebre detto che afferma:”non ci sono pigri, ci sono soltanto malati”.
Dal momento che una persona è pigra, sia che si tratti di un bambino o di un adulto, bisogna ricercare per prima cosa la causa della pigrizia. Questa infatti, può essere sintomo, sia di una deficienza fisica o nervosa, sia di una sofferenza psicologica che può avere molteplici cause.

COME INTERVENIRE PER AIUTARE CHI SOFFRE DI DEPRESSIONE

Il primo passo da fare quando ci si trova di fronte ad una persona depressa è quello di costruire una “relazione fiduciosa”. E’ essenziale offrire un ascolto e una comprensione spontanei e naturali. Bisogna considerare che chi soffre di depressione è diventato “insensibile”, per cui è inutile distrarlo dai suoi problemi e non si devono mai sminuire le sue “apparenti” difficoltà.
Risultano altrettanto inutili i consigli di “prendersi un po’ di riposo” o di fare una bella vacanza”. La depressione è uno stato dell’umore dove lo scetticismo, i dubbi e il
pessimismo sono i sintomi principali. Tentare di “scuotere” chi soffre di depressione dal suo torpore, spingendolo a compiere delle azioni, è l’errore più grande, perché mancando di forza di volontà, questo atteggiamento rafforza i suoi sentimenti di inadeguatezza e i sensi di colpa.
E’ necessario coinvolgere la persona che si sente depressa in un legame “affettivo” nel quale si senta compreso e rassicurato. Solo in questo modo arriverà ad accettare di chiedere aiuto ad un professionista. Bisogna stare tuttavia attenti a non rassicurarlo esageratamente, perché il sentirsi commiserato potrebbe rafforzare la sua convinzione di essere impotente. E’ quindi importante fargli sempre presente che il miglioramento è anche compito suo; quindi senza forzare chi soffre di depressione a sforzi sovraumani di volontà, aiutiamoli a credere che hanno le potenzialità per uscirne, e rafforziamo in loro, giorno dopo giorno, questa speranza.
Questa azione ripetuta, può aiutare ad acquisire la tendenza verso uno stato vitale più alto e più gioioso.
In questo senso, due sono le parole chiave per chi soffre di depressione: è PAZIENZA e SPERANZA, che si riassumono in una celebre affermazione di Nichiren Daishonin che ognuno di noi dovrebbe sempre tenere presente, ossia “l’Inverno si trasforma sempre in Primavera”.
Se anche tu hai soffri di depressione, 


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BUONA VITA A VOI




Vincenzo D’Angelo: Counselor ad approccio sistemico integrato 
all’armonia posturoemozionale funzionale, Life-Mental Coach, Naturologo , 
operatore shiatsu, massaggiatore olistico, operatore Wassage.
conduttore di gruppi di E-Motion e Yoga della Risata 
TEL.  :  338-8809519 
professionista disciplinato ai sensi della legge 4/2013.
 del 14 gennaio 2013, pubblicata nella GU n. 22 del 26/01/2013" 



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Cos’è lo stress?

Il Dottor Hans Selye (1907 – 82) dell’università di Montreal in Canada, un pioniere nella ricerca sullo stress, usò tale parola per la prima volta in un articolo scritto nel 1935, nel quale definiva la tensione avvertita da una persona “stress” e lo stimolo stesso “stressogeno”.
Il termine “Stress” è preso in prestito dall’ingegneria e dalla fisica ed indica la forza esercitata su un oggetto. Per esempio, esercitando una pressione con un dito su una palla di gomma, si crea una concavità. La condizione di pressione sopportata dalla palla è detta “stress”.
Ai nostri giorni utilizziamo il termine “stress” per indicare una reazione tipica di adattamento fisico, mentale ed emozionale ad un cambiamento.
Nel tempo il termine “stress” ha assunto una connotazione negativa, in quanto generalmente viene considerato nocivo per la salute.Tuttavia non dobbiamo dimenticare che lo stress è da considerarsi un fenomeno naturale, che fa scattare quei meccanismi neuro-chimici che rendono i nostri sensi più pronti ad affrontare le situazioni che la vita ci propone quotidianamente.
Di conseguenza una piccola dose di stress è addirittura utile e fa bene. I cambiamenti che percepiamo come moderati infatti, non sono soltanto innocui, ma addirittura corroboranti, dato che la nostra capacità di reagire e di adattarci deve essere esercitata regolarmente per mantenersi in efficienza.
Tuttavia, quando la dose quotidiana di stress diventa eccessiva, la salute e l’equilibrio psico-fisico vengono danneggiati. Si parla in questo caso di “distress” (stress cattivo), e conoscerne i meccanismi è necessario per evitarne i danni.
Quando ad esempio le novità sono troppo grandi o influenzano negativamente la nostra vita per lungo tempo, la capacità di adattamento può venire sollecitata in modo eccessivo e possiamo ammalarci.
Se ad esempio, per un lungo periodo di tempo si ha a che fare con un capo scontroso ed esigente che non fa altro che criticare senza fare mai un apprezzamento, alla fine la situazione potrebbe risultare logorante. Se ci si deve prendere cura da soli di un parente costretto a letto senza ricevere aiuto o sostegno, è facile sviluppare a propria volta una malattia fisica o mentale.
E’ interessante notare che anche i cambiamenti generalmente considerati positivi, possono causare stress, come ad esempio un matrimonio, una vacanza, la nascita di un figlio (soprattutto il primo) o una promozione. Nel caso di una vacanza, ad esempio, essa può essere causa di stress perché quando ci si allontana dall’ambiente familiare o di lavoro, ci si deve automaticamente adeguare alla nuova situazione, e questo implica un impiego supplementare di energia mentale, spesso associato a un senso di ansia.

COSA SUCCEDE QUANDO SIAMO STRESSATI

Sotto stress, rispondiamo con reazioni stereotipate che Hans Selye classifica comeSINDROME GENERALE DA ADATTAMENTO. Questa sindrome si attiva non appena una persona percepisce un fattore stressogeno.
Non appena percepiamo una situazione come potenzialmente minacciosa, entra in azione la nostra primitiva risposta allo stress, la “reazione combatti e fuggi”. Per prima cosa la mente entra in uno STATO DI ALLARME in cui i centri celebrali innescano la reazione di pericolo che da il via ad una serie di modificazioni chimiche nel corpo: i muscoli si tendono, il livello di adrenalina nel sangue aumenta, il ritmo respiratorio si velocizza, il battito cardiaco aumenta, la pressione del sangue sale, zuccheri e grassi vengono rilasciati nel sangue per fornire energia supplementare, la salivazione diminuisce, aumenta la sudorazione. Tutti i sensi sono in “allarme rosso” e la liberazione dell’adrenalina e del cortisolo rendono l’organismo pronto ad agire. Queste reazioni fisiche spontanee sono molto utili quando va a fuoco la casa, perché permettono di correre più velocemente e di allontanarsi in fretta dal pericolo. Tuttavia, se per avere le stesse reazioni automatiche basta pensare alla riunione di lavoro dell’indomani, allora si è nei guai. Se nel primo caso infatti viene fatto buon uso della tensione e di tutte le energie fisiche supplementari, nel secondo caso questo eccesso di energia non ha modo di sfogarsi, gli ormoni dello stress entrano in circolo nell’organismo, mantenendo un eccessivo stato di agitazione. Per qualcuno ciò significa un aumento della secrezione dei succhi gastrici che in definitiva può causare ulcere; inoltre, la prolungata presenza di tensione e un’eccessiva sollecitazione della personale capacità di adattamento, può sfinire l’organismo e aumentare il rischio di danni funzionali ad organi come cuore e reni.
Nel secondo stadio, quello di RESISTENZA, tutte le accresciute risposte fisiche e mentali prima attivate continuano a creare un aumento di attività per poter far fronte alla difficoltà, si entra quindi progressivamente in una fase di “adattamento” finchè lo stress non si esaurisce. In questa fase il corpo “si adatta” a vivere nello stress come se fosse diventata una condizione “normale”, ma è una condizione molto pericolosa perché progressivamente avviene un impoverimento di tutte le riserve fisiologiche dell’organismo. C’è infatti un limite alla forza e alla resistenza che una persona può mettere in campo prima di entrare nel terzo stadio: l’ESAURIMENTO.

L’ESAURIMENTO

A questo terzo stadio ci si arriva oltrepassata una certa soglia di stanchezza, quando si raggiunge uno stato in cui nulla sembra giovare e i tentativi di rilassarsi fanno sentire solo più stanchi.
Spesso arriviamo al terzo stadio ignorando i segnali dei primi due. Nello stadio di allerta corpo e mente si preparano ad agire, ma dato che si tratta di una preparazione inconscia e quindi automatica, è facile che venga ignorata.
Ci sono persone che si ammalano senza rendersene conto. Persone che non avvertono lo stress nemmeno quando questo ha cominciato a pesare su di loro fisicamente ed emotivamente.
Lo si può notare soprattutto nelle persone che si sforzano sempre troppo duramente o che sono molto sensibili ai bisogni o alle esigenze degli altri. Queste persone interagiscono in modo esagerato con il loro ambiente.
Abusano delle proprie risorse, fino a sfinirsi. C’è infatti differenza tra uno sforzo naturale ed uno sforzo eccessivo. Se si tira troppo la corda, non si sarà in grado di mantenere un impegno troppo a lungo. Nessuno sforzo irragionevole può produrre un progresso costante e duraturo.
Per non cadere nella trappola dello stress è necessario essere in grado di valutare il proprio stato fisico ed emotivo in modo obiettivo: cosa facile a dirsi ma non a farsi.
La vita moderna è infatti basata sull’iperattività, la competizione, l’aggressività, la volontà spasmodica.
Ecco alcune delle massime ricorrenti e tanto nocive nella nostra società:
“Andiamo, supera la tua stanchezza; essere stanchi è un lusso!”
“La stanchezza? Non la conosco!” (sottinteso: di conseguenza non riesco a capire coloro che sono stanchi; li disprezzo; devono darsi solo da fare!)
“Ti senti stanco o depresso? Passa al contrattacco!”
Questa serie di assurdità che purtroppo rappresentano la mentalità più diffusa dimostrano che nella società moderna vige quindi una generale condanna della stanchezza, al punto da considerarla una riprovevole mancanza di volontà.
Di conseguenza una persona che si sente stanca viene biasimata, un’altra invece viene ammirata e ricompensata perché…. Esaurita!!
Assurdo ma vero…
Eppure la stanchezza è una delle peggiori piaghe della nostra epoca.
E’ appena cominciato un nuovo giorno e la maggior parte delle persone si trascinano dietro la stanchezza recitando lo stesso ritornello tutti i giorni:
“fin dal mattino mi sento stanco .. sono irritabile..”
“al mattino sono di pessimo umore e cerco un motivo qualsiasi per litigare .. al mattino devo fare terribili sforzi per ingranare .. solo verso le undici incomincio a sentirmi in forma..”
Questo genere di stanchezza, pur non essendo evidentemente normale, è ormai diffusa in tantissime persone che hanno quasi normalizzato tale condizione. E’ una stanchezza divenuta tanto parte integrante della vita che nemmeno un riposo prolungato riesce a eliminarla.
Ma è necessario non dimenticare che il riposo e il sonno sono bisogni naturali. Il sonno è un periodo di recupero: le cellule cerebrali si liberano dalle tossine accumulate durante la loro attività. Di conseguenza la mancanza di sonno provoca un vero e proprio avvelenamento. Le cellule cerebrali esauriscono le loro riserve, accumulando tossine. Dopo aver dormito, ogni individuo dovrebbe sentirsi completamente a posto, rigenerato. Ogni essere umano dovrebbe al mattino accogliere con gioia il nuovo giorno, fiducioso di affrontare la giornata nel migliore dei modi. Guardandoci invece attorno, possiamo constatare che difficilmente questo accade.
Di fronte alla generale condanna della stanchezza come si comporta quindi una persona affaticata?
Poiché teme il disprezzo, ha paura del giudizio, si rizza in piedi e va oltre perseverando nei propri sforzi. Si mette alla ricerca di tutti gli eccitanti che gli permettono di superare la stanchezza: abusando di fumo, di caffè e di sostanze stimolanti. Continuando a sforzarsi con un atteggiamento di ostinazione e accanimento, la persona arriva al super affaticamento e quindi all’ESAURIMENTO.
Normalmente l’uomo deve passare regolarmente dall’azione ( che può essere manuale, muscolare, mentale, verbale, ecc..) al riposo e dal riposo all’azione, rispettando il segnale della stanchezza, secondo questo schema:
  1. Agisce.
  2. Questa azione provoca una sensazione di stanchezza che deve essere piacevole perché naturale.
  3. L’azione rallenta, poi si arresta; l’individuo si riposa rilassandosi completamente.
  4. Recupera, si rimette in marcia e di nuovo torna ad agire.
Lo schema che spesso si presenta in realtà è però il seguente:
  1. Agisce male (perché affaticato).
  2. Arriva ad una grande stanchezza.
  3. Respinge la stanchezza e continua ad agire.
  4. Giunge ad un’estrema stanchezza.
  5. La respinge ancora e finisce nell’esaurimento.

QUALI SONO LE CONSEGUENZE DELL’ESAURIMENTO?

Gli effetti immediati dell’esaurimento
L’esaurimento provoca una doppia reazione:
  1. la depressione
  2. l’agitazione.
L’esaurito oscilla continuamente tra questi due poli: non c’è depressione senza agitazione e non c’è agitazione senza depressione.
La regola:
  • agisce
  • si stanca
  • si riposa
  • agisce di nuovo
diventa:
  • si agita
  • si esaurisce
  • non può riposare
  • si agita, quindi si deprime, ecc..
E’ un circolo vizioso che non finisce mai. Infatti l’esaurimento è come un veleno: da una parte provoca l’intontimento (depressione) e da una parte l’eccitazione (agitazione).
La depressione provoca immediatamente una difficoltà ad agire, perché vi è incapacità ad agire! L’energia non è più sufficiente per svolgere i compiti normali. Un lavoro facile diventa per il depresso una montagna da sollevare. E’ perciò normale che egli indietreggi di fronte alle circostanze che richiedono azione, dal momento che il suo sistema nervoso non gli permette di affrontare questa stessa azione.
Ogni sforzo diventa terribile per il depresso, egli compie continuamente notevoli sforzi per superare le sue deficienze, poiché ne soffre e teme soprattutto il biasimo generale.
E infatti, come interpreta la società questo rifiuto dinnanzi all’azione? Lo bolla di debolezza morale, gli si dice che rifiuta di fare qualsiasi sforzo! Lo si accusa di fiacchezza, di codardia, e il depresso maledice l’incomprensione generale di coloro che gli sono vicini augurandosi che tutti cadano nel suo stesso stato depressivo, perché facciano diretta esperienza del fatto che, se lui non agisce, esita e indietreggia, è perché il suo stato lo induce a non agire, a esitare, a indietreggiare.
Il depresso si trova quindi tra persone che lo giudicano e lo disprezzano perché pensano che l’esaurito abbia voluto egli stesso il suo esaurimento. Ma questo è un grave errore: si pensa che l’essere umano sia padrone della propria energia e che possa produrla a volontà.
Cosa del tutto falsa. E di conseguenza si giudica il depresso responsabile di questa sua mancanza di volontà. Senza rendersi conto che la volontà normale è un problema di salute ed equilibrio. Invece di dire:”bisogna avere volontà”, bisognerebbe dire: “bisogna avere la salute fisica e nervosa che produce automaticamente la volontà”. La volontà è infatti, né più né meno, una funzione naturale che consiste nel dichiarare: “voglio fare questo e lo faccio senza alcuna difficoltà, tranquillamente”. Quindi l’atto di volontà consiste nell’attingere senza sforzo alla riserva di energia.
Purtroppo nella nostra società più grandi sono le difficoltà che un uomo è in grado di superare, più merito gli viene attribuito. Ma non sarebbe semplice dire che se un uomo possiede più salute ed equilibrio, tanto meglio riesce ad agire? Ciò gli permette di sforzarsi meno e l’energia risparmiata è così a disposizione per altri obiettivi.
Se anche tu hai problemi di stress,




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 del 14 gennaio 2013, pubblicata nella GU n. 22 del 26/01/2013" 


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La timidezza




CHE COS’È LA TIMIDEZZA?



E’ quasi impossibile definirla. Innanzi tutto perché un timido è un insieme di elementi molto 



complessi, inoltre perché esistono diverse tipologie di timidezza. In linea generale si possono distinguere: i timidi propriamente detti, la cui timidezza costituisce un aspetto permanente del carattere; i timidi temporanei che soffrono di crisi periodiche di timidezza, generata da circostanze diverse; i grandi timidi o “sociofobi”, che soffrono di una forma di timidezza estrema, tale da annullarne totalmente o quasi la personalità e gli atti personali.
E’ necessario distinguere le circostanze che provocano la timidezza: una persona può essere ad esempio particolarmente timida nei confronti dell’altro sesso o dell’autorità. Nel caso sia l’autorità ad intimidire, è necessario approfondire sotto quale forma essa si presenta: religiosa, sociale o artistica; oppure, l’autorità può essere rappresentata da una persona che ricopre un determinato ruolo nel contesto relazionale a cui appartiene il timido (il padre, il capoufficio, l’insegnante, ecc..).
Per esempio, molte persone sono timide di fronte ad un’uniforme (soprattutto quella di un poliziotto). La ragione risiede nel fatto che in questo caso, l’uniforme rappresenta una barriera, un’impossibilità a discutere e a farsi comprendere. Di fronte all’individuo che indossa un’ uniforme, l’interlocutore timido prova un senso di impotenza e di frustrazione. Le reazioni che ne derivano possono essere quindi di svariata natura e sono comunque da leggersi tutte come forme di compensazione: di umiltà, scortesia, grossolanità, aggressività.
La stessa forma di timidezza contraddistingue alcune persone brillanti nel momento in cui debbano relazionarsi con persone poco intelligenti. Questo avviene perché la stupidità, per una persona intelligente, rappresenta anch’essa una barriera, un muro, in quanto rappresenta l’impossibilità a comunicare. Impossibilità, per la persona intelligente, di parlare lo stesso linguaggio di chi gli sta di fronte e quindi di farsi capire. La persona intelligente e timida nutre inconsciamente il timore di provare dei sentimenti di umiliazione e di frustrazione senza alcuna possibilità di rivalsa.
E’ evidente dunque che alla base della timidezza c’è sempre un sentimento di frustrazione e di inferiorità nel relazionarsi con gli altri.
Essa è come un tronco sul quale possono innestarsi innumerevoli rami: molto spesso questo disagio nasconde un senso di colpa, un’autopunizione o un’omosessualità (latente o reale).
Mentre è difficile che un timido si senta a disagio standosene a casa da solo, il problema insorge quando si trova in presenza di altri, oppure, alla sola idea di un possibile contatto. In questo caso, tre sono fondamentalmente i rischi ai quali egli si sente esposto e che possono tradursi nel: 1) timore di non riuscire a controllare l’intensità del proprio disagio nei diversi contesti sociali; 2) timore di non controllare i segni visibili e fisiologici del suo disagio (rossore, difficoltà di espressione e così via..); 3) timore di essere respinto, come naturale conseguenza del suo sentirsi a disagio.

LE MANIFESTAZIONI DELLA TIMIDEZZA

Nel momento in cui è colpito da una crisi, diverse sono le manifestazioni fisiologiche che caratterizzano il timido: disturbi della secrezione (traspirazione, soprattutto delle estremità, mancanza di saliva; deglutizione anormale); dilatazione dei vasi periferici: il rossore al viso; costrizione dei vasi periferici: il pallore del volto; disturbi della parola e della respirazione: contrazioni del torace, corde vocali rigide che implicano parola strozzata, respiro corto, balbuzie, respirazione aritmica, cambiamento di voce che talvolta è molto bassa ed incomprensibile; rigidezza muscolare: incapacità di coordinare volontariamente i movimenti, esitazione, movimenti involontari, facilità ad inciampare, a rompere oggetti, mancanza di equilibrio; tremolio alle dita; contrazioni cardiache: sensazioni che il cuore stia per cedere; spossamento, sudore, stato di passività una volta terminata la crisi di timidezza.
Alla base di queste manifestazioni fisiologiche, vi sono delle manifestazioni psicologiche che sono le più numerose e che accomunano tutte le diverse forme di timidezza: innanzitutto si restringe in modo considerevole la capacità di osservazione e il campo della coscienza. Una cosa soltanto infatti colpisce il timido: la circostanza che lo intimidisce. Al di fuori di questo egli non sente niente, non vede niente e non osserva niente; ne è un esempio il conferenziere che, dopo la conferenza, ignora di aver saltato alcuni pezzi del suo testo.
Di conseguenza, diventando impossibile una reazione immediata, il timido si sente completamente paralizzato, e come se fosse all’improvviso privo di intelligenza, reagisce in un modo assurdo ed impacciato. Molto spesso infatti una persona intelligente e timida, può apparire stupida. Al contrario, la circostanza che ha generato la timidezza è osservata con implacabile acutezza. Nel cervello dei timidi si fissano i più minimi dettagli, le piccole impressioni; ed è solo su questo materiale che il pensiero torna senza sosta a rimuginare.
La paura può essere avvertita come un’oppressione interna spaventosa insieme alla sensazione di soffocare e può anche essere seguita da intontimento e da inerzia; si fa forte il desiderio di fuga e il tentativo di respingerlo non fa che aumentare la paura. Qualsiasi attività di ritirata viene così esclusa e il timido prova dentro di sé la paura di un animale in gabbia.
Questa sofferenza può essere generata anche alla sola idea di dover affrontare una situazione che si conosce e che si considera pericolosa, come ad esempio il rifiuto di partecipare ad una riunione, ad un pranzo, o ad un appuntamento: il rifiuto anticipato di tali situazioni fa spesso scatenare nei timidi dei malesseri fisici, come per esempio falsi raffreddori per vasodilatazione, mal di stomaco per contrazioni, male al cuore per contrazioni cardiache.
Esistono inoltre le cosiddette forme di timidezza localizzata, legate per lo più all’aspetto fisico: quante volte ci è capitato di sentire frasi come queste:” sono diventato timido perché troppo grasso, perché ho i capelli rossi, perché ho il naso grosso”.
In tutti questi esempi, le cause della timidezza sono rivelate dalle stesse persone, inconsapevoli tuttavia del fatto che non sono delle vere cause. Spesso infatti si cerca inconsciamente di ricondurre l’origine della propria timidezza a qualcosa che crediamo sia una discriminante nel momento in cui dobbiamo farci accettare dagli altri. Queste persone dunque, sebbene siano veramente timide, cercano di attribuire ad un proprio difetto la responsabilità della loro timidezza, allo scopo di giustificarla. La timidezza di base tuttavia, va ricercata in altre direzioni.

TIPOLOGIE DI TIMIDEZZA

All’Ospedale Sainte – Anne, a Parigi, psichiatri e psicologi clinici hanno censito cinque grandi classi di timidezza, che si manifestano in relazione alle situazioni più temute. Le due più frequenti sono la timidezza di azione e la timidezza di prestazione:
  • Timidezza d’azione: è la paura di disturbare l’altro. I timidi di azione non vorrebbero contraddire gli altri per nessun motivo; non vorrebbero mai trovarsi a dover prendere un’iniziativa che potrebbe metterli a rischio di tradire un disaccordo da parte loro. A proprio agio in pubblico, non si oppongono mai. Rifuggono le discussioni, evitano di porre domande precise durante le conversazioni. La loro paura del conflitto riflette il timore di essere poco stimati.
  • Timidezza di prestazione: è l’impressione ossessiva e paralizzante che gli altri siano lì per giudicarci. L’esposizione di fronte ad una classe, la lettura di un testo durante un matrimonio sono situazioni che mettono alla prova. Questa forma di timidezza inizia a manifestarsi sui banchi di scuola, con la paura di fare domande in classe. Timidezza del quotidiano: gli incontri con un vicino, o il semplice fatto di andare al lavoro e di chiacchierare con i colleghi possono essere un supplizio. I timidi del quotidiano temono sguardi, silenzi, situazioni di stasi cui sembra aprirsi un baratro tra loro e l’interlocutore. Il massimo del disagio consiste nel percorrere un tragitto in automobile con una persona che non si conosce molto bene. Senso di paralisi, sudorazione e tensione interna riflettono questa paura di non “saper fare conversazione”.
  • Timidezza della rivelazione di sé: in questo caso la paura riguarda il territorio del personale. I timidi della “rivelazione di sé” sono a proprio agio con le conversazioni quotidiane, ma si bloccano quando si sfiora la loro vita personale. Li si conosce da anni, e ci si rende conto tutto d’un tratto di non sapere nulla di loro.
  • Timidezza di visibilità: questa timidezza corrisponde all’angoscia di trovarsi a incrociare sguardi. Il timido di visibilità detesta, per esempio, passare davanti ad un caffè all’aperto con le persone sedute ai tavoli.

LA SOCIOFOBIA

Una forma estrema di timidezza è la sociofobia: appartengono a questa categoria le persone angosciate di ritrovarsi in mezzo alla gente.
Generalmente i timidi appartenenti a questa categoria soffrono in silenzio, paralizzati dalla paura degli altri e dall’immagine che potrebbero dare di sé. Questi individui, chiamati anche sociofobi, sono circa il 5% della popolazione, per la maggioranza donne. Pur essendo stata sottovalutata per molti anni, oggi questa condizione, visto l’elevato grado di penalizzazione e diffusione, viene riconosciuta dalla psichiatria come una vera e propria malattia.
Si parla di fobia sociale quando una persona ha paura di affrontare lo sguardo altrui ed è colta dall’ansia prima di qualsiasi contatto con estranei; durante l’incontro si angoscia a tal punto da giungere al panico estremo e si sente, alla fine del confronto, umiliata e piena di vergogna.
I sociofobi temono infatti qualsiasi incontro: con un vicino, un negoziante o un collega, a prescindere dal fatto che abbiano a che fare con più persone o con un solo interlocutore. Sebbene il prendere la parola ad una riunione sia la situazione più temuta, essi hanno tuttavia anche paura di essere osservati nelle situazioni più comuni: mentre mangiano, mentre camminano per strada o scrivono. Hanno la sensazione di essere sempre al centro dell’attenzione anche se razionalmente riconoscono che non è sempre così e si sentono privi di ogni protezione di fronte agli altri. Il sociofobo si sente sempre giudicato negativamente dagli altri in qualsiasi situazione e questi giudizi negativi riflettono la visione che egli ha in realtà di se stesso.
Questa autosvalutazione può essere focalizzata su un generale senso di inferiorità o sulla paura di rivelare la propria emotività.
La paura aumenta quanto più si evitano le situazioni che sono causa di ansia. Come in tutte le fobie evitare le circostanze temute fa aumentare il timore di trovarcisi, instaurando un circolo vizioso da cui si ha difficoltà ad uscire.
E’ impossibile, o quasi, tenersi lontani da tutte le situazioni sociali ma i sociofobi cercano in tutti i modi di sottrarsi alle occasioni di contatto, scegliendo professioni in cui i rapporti con gli altri sono ridotti al minimo e inventando pretesti per non essere coinvolti in attività di gruppo.
Quando si trovano in presenza di estranei non rivolgono loro la parola e cercano in tutti i modi di non incrociarne lo sguardo. Di loro si pensa spesso che siano freddi, eccentrici, alteri, ma in realtà vorrebbero avere amici e vivere come tutti gli altri. I sociofobi non sono misantropi o timorosi dell’aggressività e della cattiveria altrui, non pensano male degli altri ma solo di se stessi.
L’inizio di questo disturbo risale spesso all’infanzia o all’adolescenza. Una volta apparsa la fobia sociale può durare per anni, talvolta anche per tutta la vita. Fin dall’infanzia si sentono inibiti ed è difficile dire se la loro fobia sia scaturita dall’inibizione o viceversa. In età adulta hanno tendenze ansiose generalizzate e sono spesso demotivati, privi di autostima e demoralizzati, sintomi che ricalcano quelli della depressione.
Alcuni hanno avuto genitori a loro volta timidi e introversi, perciò sono cresciuti in assenza di modelli di socializzazione sufficienti. Altri hanno sofferto di atteggiamenti svalutativi da parte di uno o di entrambi i genitori, con critiche e derisioni continue, per esempio da parte di un padre autoritario che aveva scelto uno dei figli come capro espiatorio o che riponeva in lui aspettative smisurate.
Alcuni, al contrario, sono stati bambini troppo protetti da parte dei genitori, convinti di agire nel loro bene; altri bambini si sono sentiti scoraggiati da un clima troppo adulto, nel quale la loro emotività non poteva esprimersi liberamente e altri ancora sono stati bambini frustrati o per mancanza di affetto o per mancanza di comprensione; ci sono poi quelli che sono stati dominati e soffocati da uno dei genitori ed infine quelli che hanno avuto un padre che, reputandosi molto intelligente, glielo faceva sempre notare.
In conseguenza di tutto ciò si verifica, in età adulta, la permanenza di una visione dicotomica di sé e degli altri: o si è perfetti e geniali (gli altri) o non si è nulla (se stessi). Di conseguenza, nel relazionarsi con gli altri, un tratto comune è il timore di sentirsi rifiutati.

IL COUNSELLING E LA TIMIDEZZA

Attraverso il counselling si arriva a modificare progressivamente i comportamenti e i modi di pensare che scatenano la sofferenza. Il lavoro cognitivo consiste nel fare comprendere al cliente che certe sue convinzioni e certi suoi modi di vedere il mondo e se stesso deformano la realtà procurandogli emozioni dolorose.
Il percorso di liberazione dal disagio consiste dunque nel praticare una “ristrutturazione cognitiva”, consistente in un’accurata analisi delle distorsioni della realtà e delle convinzioni errate che contraddistinguono il cliente nel quotidiano, al fine di raddrizzarle progressivamente. Il cliente è guidato nell’analisi del suo dialogo interiore, dei frammenti di pensiero che lo assalgono: si tratta spesso di pensieri automatici, ragionamenti orientati costantemente verso la propria svalorizzazione.
Generalmente, quando si analizza un’esperienza sociale vissuta dal cliente, il suo riflesso abituale è quello di fissarsi solo sulla sensazione di ansia o di imbarazzo provata, invece che sugli elementi positivi dell’esperienza. Costringendosi ad analizzare tutti gli aspetti positivi e negativi delle situazioni incontrate, egli può così rimettere in questione le proprie convinzioni. E’ così possibile che queste modifiche prendano campo nella memoria a lungo termine, facilitando pensieri più elastici e un migliore controllo delle emozioni.
Come abbiamo detto, gli evitamenti permettono di sfuggire alle situazioni angoscianti, ma mantengono il cliente nella falsa idea che queste situazioni non possono essere affrontate. Gli si insegna allora ad esporsi a livelli d’ansia crescenti, creando situazioni via via più ansiogene. Appositi giochi di ruolo consentono di acquisire nuove tecniche di affermazioni di sé. I clienti constatano che la loro angoscia non è sempre percepita dagli altri e che ciò non ha conseguenze a lungo termine. Si tratta di un lavoro didesensibilizzazione graduale che probabilmente produce effetti nella memoria emotiva: l’approccio al cambiamento del pensiero negativo è lento ed ha una distanza tale che la mente ha tutto il tempo necessario per abituarsi gradualmente ad associare, alla situazione che incute timore, una reazione emotiva più rilassata.
Il vecchio schema negativo viene in questo modo sostituito con una nuova reazione positiva.
Grazie agli effetti congiunti di questi metodi cognitivi e comportamentali, i progressi a volte sono spettacolari soprattutto quando i clienti acquistano padronanza della tecnica e possono modificare la propria visione del mondo. Gli esercizi di esposizione devono essere ripetuti spesso e a lungo nella vita reale, dato che i vecchi riflessi condizionati e le percezioni negative radicate nel corso di anni non si lasciano scacciare facilmente.







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Vincenzo D’Angelo: Counselor ad approccio sistemico integrato 
all’armonia posturoemozionale funzionale, Life-Mental Coach, Naturologo , 
operatore shiatsu, massaggiatore olistico, operatore Wassage.
conduttore di gruppi di E-Motion e Yoga della Risata 
TEL.  :  338-8809519 
professionista disciplinato ai sensi della legge 4/2013.
 del 14 gennaio 2013, pubblicata nella GU n. 22 del 26/01/2013" 





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LA RABBIA: UN’EMOZIONE NEGATIVA?

come emozione negativa, da evitare in noi come negli altri, di fatto diventa Il punto importante da comprendere a proposito della rabbia, e’ che, nonostante venga

spesso etichettata negativa, e soprattutto distruttiva, quando non viene riconosciuta e usata al momento in cui emerge, ma viene repressa con conseguenze dannose non solo per se stessi, ma anche per gli altri.
Il problema è che fin dalla tenera età ci viene insegnato che è cattivo e sbagliato esprimere la collera; ancora oggi questa emozione viene considerata inopportuna, irragionevole, associata all’aggressività e al capriccio; La gente è spesso spaventata dalla propria rabbia: teme che la spinga a compiere qualche azione dannosa e, di conseguenza, ci si rifiuta di prestare attenzione alla collera degli altri e si esita ad esprimere la propria rabbia.
E’ importante quindi considerare che, se non ci siamo mai concessi di esprimere la rabbia, probabilmente ne abbiamo accumulata una montagna dentro di noi.
Reprimendola, è più probabile che la rabbia esploda in momenti inopportuni e soprattutto verso persone e situazioni che hanno poco a che fare con la causa originale della rabbia che ci ribolle dentro, ed e’ anche piu’ probabile che ce la prendiamo con chi crediamo sia piu’ debole di noi, non fosse altro che per avere un minimo di senso di potere. Un atteggiamento questo, tipico delle bestie, temere il piu’ forte e sopraffare il piu’ debole, quando invece, l’essere umano, a differenza degli animali, può dominare i suoi istinti.
La rabbia repressa si ritorce contro noi stessi con attacchi depressivi e alimenta un sentimento di inferiorità; inoltre, quando la mente non riesce più a gestire i conflitti, il corpo ne soffre. Numerose affezioni psicosomatiche come mal di schiena, ulcere, psoriasi possono essere legate al soffocamento della collera.
E’ fondamentale dunque, per la nostra salute psico-fisica, imparare ad esprimere la collera in maniera costruttiva ed appropriata.
Senza rabbia si e’ privi di protezione, senza rabbia siamo alla merce’ delle reazioni altrui e non possiamo prevenire tali reazioni dal riaccadere, per noi e per gli altri. La rabbia usata costruttivamente aiuta a sviluppare fiducia in se stessi in quanto non e’ necessario che monti fino ad esplodere per esprimerla. E’ importante riconoscerla al momento in cui emerge, per quello che e’: un meccanismo di protezione che ci segnala che c’e’ qualcosa che non va, una reazione di insoddisfazione intensa, suscitata generalmente da una frustrazione che ci riguarda e che giudichiamo inaccettabile; dunque la rabbia, comunque venga espressa, in modo esplosivo o in forma repressa, agisce come un segnale d’allarme. La nostra rabbia ci mette a conoscenza del fatto che ci fanno del male, che i nostri diritti vengono violati, che i nostri bisogni e i nostri desideri non sono soddisfatti.
Imparare a manifestare la propria collera significa conoscere i propri reali bisogni e intrattenere relazioni più autentiche con le persone che ci circondano.

COME ESPRIMERE LA RABBIA

Riabilitare la rabbia non significa tuttavia lasciarsi andare a comportamenti irosi.
Non c’è bisogno di urlare o di arrivare addirittura alle mani per esprimere la propria irritazione. L’arma migliore è la parola. E’ bene però utilizzarla consapevolmente per esprimere i veri motivi delle nostre insoddisfazioni. Dietro la collera si nasconde sempre una sofferenza. Adirarsi ad ogni costo e contro chiunque è un modo per sottrarre energia alla disperazione e non guardare in faccia il dolore. Perché il proprio malcontento sia preso seriamente in considerazione, è bene esprimerlo con la massima calma.
Di seguito alcuni consigli utili per fare in modo che questa emozione diventi costruttiva:

PLACARE L’EMOZIONE PARLANDONE CON UN AMICO

Per rendere possibile un approccio disteso alla discussione con la persona che ci ha fatto arrabbiare, può essere utile scaricare preventivamente le proprie tensioni, telefonando ad esempio ad un amico per raccontargli l’accaduto. Questo serve a far passare il primo moto di collera, quello più aggressivo, senza contare che una terza persona potrebbe suggerirci un modo diverso di guardare le cose.

CHIARIRSI LE IDEE

Avere infatti un’idea precisa di cosa si sente dentro e di cosa ci si aspetta possa accadere dopo una discussione, ci aiuta a mettere a fuoco le cose da dire, gli argomenti da mettere in campo. E ci dà una mano a controllare le cose, in modo che l’emozione non prenda il sopravvento facendoci sfuggire il controllo della situazione. Per acquisire chiarezza, può essere utile porsi delle domande:
  • che cosa ha scatenato la nostra collera?
  • il nostro interlocutore ci ha nuociuto intenzionalmente o per errore?
  • siamo sicuri di non esserci sbagliati sulle sue intenzioni? O di non aver mostrato eccessiva suscettibilità?
  • la situazione merita una reazione decisa?
  • abbiamo considerato delle alternative per sdrammatizzare?
  • spetta al nostro interlocutore cambiare o a noi farci capire meglio?
  • che risultati ci aspettiamo dalla nostra collera?

ESPRIMERE LE PROPRIE OPINIONI

E’ necessario farlo dopo aver placato le proprie emozioni. L’atteggiamento da adottare è di tipo assertivo, evitando dunque di scadere in eccessi di alcun tipo, quali le ingiurie e le accuse.
Lo scopo è infatti quello di ristabilire un equilibrio e non di schiacciare l’interlocutore: lo psicoterapeuta americano Thomas Gordon ha elaborato il sistema dei cosiddetti “messaggi-io”, che si basa sul principio di parlare di sé in questo modo: definendo con precisione ciò che ci ha disturbato (quando tu…), raccontando le nostre emozioni (mi sento….), condividendo le nostre aspettative (perché io…), esprimendo i nostri bisogni attuali e le motivazioni (e io ti chiedo di.. in modo da..). Il beneficio di esprimere la collera va oltre il sollievo di togliersi un peso, significa ridefinire le relazioni con se stessi e con gli altri.

ESPRIMERE APERTAMENTE LA RABBIA

E’ importante permettere a se stessi di avvertire completamente la rabbia, creando un posto sicuro per poterla esprimere, da soli, o con un amico fidato o con un esperto. Se siamo soli in un posto sicuro, permettiamoci di parlare ad alta voce, di vaneggiare, di scalciare o urlare, di lanciare e colpire cuscini. Dopo aver fatto ciò in un ambiente sicuro, (per un periodo potremmo aver bisogno di farlo regolarmente) non avremo più paura di compiere un atto distruttivo e saremo capaci di affrontare in modo più efficace, le situazioni che ci si presenteranno.

IL RESULT ORIENTED COUSELLING E LA RABBIA

I counsellor professionisti che praticano i metodi insegnati all’Accademia Internazionale di Counselling di Londra, utilizzano dei metodi molto efficaci per aiutare i propri clienti ad esprimere la rabbia; nella sessione individuale ad esempio, si cerca di risalire ad eventi dolorosi impressi da molti anni nel subconscio: per prima cosa si procede ad un’analisi della situazione presente, in cui il cliente parla delle sue sensazioni, delle emozioni, dei conflitti interiori. Attraverso la parola è possibile per il counsellor entrare in contatto con la storia del cliente.
In un secondo tempo, si inizia a decifrare il conflitto all’origine del malessere: in quale periodo della vita (infanzia o adolescenza) si è costituito? A quale parente stretto (mamma, papà, cugino, fratello..) è legato? Come può essere descritto tale conflitto? Il terzo tempo della sessione è dedicato infine all’esplorazione della tensione accumulata e alla sua liberazione grazie ad esercizi di respirazione, al rilassamento delle rigidità muscolari, all’abbandono delle posture sbagliate e all’espressione delle emozioni represse. Le situazioni infantili e adolescenziali che bloccano o paralizzano possono essere messe in scena attraverso dei metodi molto efficaci, come ad esempio, il “metodo della stanza della collera” e il “metodo avanzato dello schermo”: tali metodi permettono di esprimere la rabbia attraverso una rappresentazione simbolica dell’emozione, allo scopo di renderci consapevoli di quanto potente essa possa essere. Gli esercizi possono dare un senso di potere personale che prima pensavamo di non possedere.
Tuttavia, non sono di certo un incoraggiamento a reagire con rabbia nel quotidiano.
Al contrario: una volta espressa la nostra rabbia in modo simbolico nella privacy della nostra mente, restituendola al mittente che l’ha provocata, e’ molto più probabile che non reagiremo con rabbia nella vita di tutti i giorni, ma con assertività, più consci del nostro potere personale e anche più consci dei nostri e altrui diritti umani.
Alla fine della sessione il cliente annota quello che ha vissuto alla scopo di utilizzare nella vita quotidiana i cambiamenti che sta facendo. Negli incontri successivi sarà utile riparlarne per allentare le tensioni che ritornano, consolidare i cambiamenti raggiunti e rassicurare la persona delle sue nuove capacità.
Il caso di Giovanni
Giovanni, 35 anni, nonostante riuscisse abbastanza bene nella propria vita professionale e apparisse generalmente sorridente, manifestava da alcuni anni evidenti stati d’animo negativi: un profondo senso di solitudine e di disperazione lo accompagnavano ogni giorno, tratteneva tutte le tensioni a livello fisico con la conseguenza di soffrire di diversi disturbi psicosomatici.
Decise quindi di sottoporsi ad una sessione di counselling:
“ho preso così coscienza che le tensioni accumulate bloccavano tutto il mio corpo, non riuscivo nemmeno ad emettere un suono anche se avevo voglia di urlare. A poco a poco mi sono sbloccato. Nel corso delle sedssioni, sono riuscito ad esprimere la mia aggressività. Sono emersi ricordi che avevo rimosso, soprattutto quelli di mio padre e la sua violenza nei miei confronti. Ricordo una sessione in cui, rivivendo un litigio avuto con lui, non sono riuscito ad esprimere la collera che mi assaliva. Ho avuto paura di esplodere. Il counsellor mi è venuto in aiuto. Le tensioni hanno cominciato a dissolversi. Ho pianto a lungo, la collera è lentamente svanita e per me è stato molto liberatorio. Da quel momento ho smesso di agire solo in modo razionale, ma ho cominciato a dare spazio alle mie emozioni.”

PER APPROFONDIRE

Daniel Chabot, Come coltivare reazioni emotive intelligenti, edizioni il punto d’incontro, 2003.
D. GOLEMAN, Intelligenza Emotiva, Rizzoli editori, 1996.
Se anche tu hai problemi di rabbia, 

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Le Fobie



Cosa sono e come nascono

Una fobia (termine che deriva dal greco e significa panico) è una paura eccessiva, senza fondamento reale, incontrollabile, causata da un particolare oggetto, attività o situazione. Le fobie assorbono completamente la vita del soggetto, diventano allora un’ossessione, che a volte impedisce qualsiasi normale attività.
Una fobia è caratterizzata da diversi fattori che la differenziano dalle paure cosiddette ordinarie:
  1. Il senso di paura persiste per un lungo periodo.
  2. La paura è irrazionale e, anche se te ne rendi conto a livello conscio, questa consapevolezza non ti aiuta a superare la paura: non sono sufficienti la volontà e la determinazione per allontanare la fobia.
  3. Tendi ad evitare l’oggetto, l’attività o la situazione che è causa della fobia.
  4. La tua routine quotidiana è influenzata, disturbata o interrotta dalla fobia.
  5. Soffri di un forte stato di panico e di ansia quando sei di fronte all'oggetto, l’attività o la situazione che è causa della fobia.
In psicologia si suddividono le fobie in tre categorie generiche:
  1. Fobie specifiche.
  2. Fobie sociali.
  3. Agorafobia.
Una fobia specifica, come suggerisce il nome, è una fobia nei confronti di un qualcosa di specifico come determinati animali o fenomeni naturali, ad esempio i tuoni. Inoltre, una fobia specifica può svilupparsi anche nei confronti di una particolare situazione, come ad esempio l’altitudine, che rende incapaci anche solo di salire su una scala a pioli. La paura, nelle fobie specifiche, è quella di venire ucciso o leso dal contatto con l’oggetto che è causa della fobia.
Con fobie sociali vengono indicate tutte quelle paure causate da un forte senso d’imbarazzo che la presenza di altre persone può provocare in un individuo. A causa di questa fobia, le persone che ne soffrono spesso non riescono ad usare i bagni pubblici, a sedersi ad un ristorante o al bar, luoghi questi dove sono presenti altre persone.
La terza categoria, l’agorafobia (dal termine greco Agorà–piazza), è caratterizzata dall'incontrollabile paura di uscire di casa, paura di rimanere da soli (spesso in casa) e dalla paura di dover viaggiare per lunghe distanze, dovendo quindi allontanarsi da casa. La persona che soffre di agorafobia ha paura di essere colta all’improvviso da un attacco di panico e di non avere nessuno nelle vicinanze che possa soccorrerla.

Alcuni tipi di fobie

Fra le più note citiamo:
  • l’agorafobia e la paura delle sincopi
  • la claustrofobia
  • la ereutofobia (o eritrofobia)
  • la nosofobia e l’ipocondria
  • la paura di prendere l’aereo
La paura di avere una sincope
E’ molto spesso legata all’agorafobia. L’emotività dovuta all’agorafobia provoca disturbi visivi e sensazioni di stordimento. Sono queste le alterazioni sulle quali il soggetto fissa la sua attenzione e cerca di interpretare: egli crede allora che siano i sintomi di una sincope imminente.
Bisogna subito chiarire questo: la sincope temuta non si verifica mai, qualunque sia l’entità della paura.
Il timore della sincope sparisce, qualche volta (ma non sempre), se la persona è accompagnata. L’agorafobia (come suoi fenomeni secondari) è un sintomo non molto grave; spesso provocato dall’esaurimento nervoso. Dovranno dunque essere ricercati e risolti i motivi di questo eventuale esaurimento.
Il cattivo funzionamento dell’apparato digerente o del fegato è una seconda frequente causa, è necessario quindi, verificare che alla base di tale disagio psichico non vi sia una causa organica. Oltre a queste, vi possono essere naturalmente altre cause possibili. Più in profondità, l’agorafobia può essere il sintomo di un conflitto interiore, che va indagato ed elaborato.
La claustrofobia
E’ la paura di un luogo chiuso: cinema, teatro, macchine chiuse, treni. Al cinema, o in una stanza qualsiasi, il soggetto si sistemerà nelle immediate vicinanze dell’uscita, per poter scappare immediatamente appena è preso dal panico. Esempio: X, che soffre di claustrofobia, ha terrore dell’ascensore. Più precisamente: terrore di rimanere rinchiusa in un ascensore. Suo figlio ed i suoi nipoti abitano all’ottavo piano di un palazzo. X prendeva quindi le scale e saliva faticosamente questi otto piani. Non prima però (e questo ogni volta) di avere chiamato l’ascensore e di avere lottato davanti alla cabina aperta per cercare di controllare il suo panico. Oltre all’angoscia penosa ed alla rabbia contro se stessa, si aggiunga anche lo stupore degli inquilini che si accorgevano della stranezza del suo comportamento. Dopo qualche tempo, X si ammalò di cuore ed i medici le proibirono formalmente di salire le scale. X adorava figli e nipotini, ma la fobia fu più forte e mai X adorava figlio e nipotini, ma la fobia fu più forte e mai X osò prendere l’ascensore che l’avrebbe condotta da suo figlio. Egli, fortunatamente, capì la situazione e l’accompagnò d uno psicologo. Questo esempio mostra la forza di una fobia. Niente può arrestarla. Tentare di sormontarla, di vincerla spesso di una difficoltà inaudita. Anche in questo caso il soggetto riconosce il carattere “assurdo” del sintomo. Egli tenta spesso di spiegarlo col ricordo di un incidente, di un malessere. Per la psicoanalisi, la claustrofobia è frequentemente connessa con un senso di colpa o di inferiorità.
L’eritrofobia
E’ la paura di arrossire di fronte ad altre persone e di conseguenza di sentirsi giudicati. I soggetti che soffrono di tale fobia sono persone timide ed estremamente emotive, quindi incapaci di controllare le proprie emozioni. Alla base di tale fobia, possono esserci talvolta dei sensi di colpa di cui non si è consapevoli, ma presenti a livello inconscio.
La nosofobia
E’ un’ossessione centrata sulla paura della malattia. Le più frequenti sono: la fobia della tubercolosi, del cancro, della sifilide, di malattie contagiose. La nosofobia si allaccia all’l’ipocondria: che è la preoccupazione esagerata di essere ammalati. Tutta l’attenzione del malato si concentra sul funzionamento dei propri organi, o di un organo in particolare. L’ipocondria può diventare una vera ossessione che condizione tutta la vita del malato. In molti casi, si osservano disturbi importanti quali: stitichezza, disfunzioni epatiche, genitali ed endocrine. E’ ben noto l’umore mutevole, egoista e cupo dell’ipocondriaco. In certi casi, l’ipocondria giunge fino alla psicosi. Allora è accompagnata da allucinazioni o da una certezza assoluta di lesioni immaginarie.
La timidezza estrema o fobia sociale
Una particolare forma di fobia è la fobia sociale, una forma di estrema timidezza.
Si parla di fobie sociali quando una persona ha paura di affrontare lo sguardo altrui, è colta dall’ansia prima di qualsiasi contatto con estranei, durante l’incontro si angoscia fino ad arrivare anche al panico estremo e si sente piena di vergogna e umiliata al termine del confronto.
Coloro che soffrono di sociofobia temono qualsiasi incontro, che sia con un vicino, un negoziante, un collega. Prendere la parola in una riunione o di fronte a un pubblico è la situazione più temuta, ma alcune persone percepiscono quasi allo stesso modo anche la discussione con un solo interlocutore e hanno paura di essere osservate mentre scrivono, mangiano, camminano per strada. Hanno l’impressione di essere sempre al centro dell’attenzione (anche se razionalmente riconoscono che non è così), si sentono giudicati negativamente dagli altri in qualsiasi situazione e questi presunti giudizi negativi riflettono la visione che hanno di se stessi.
La paura di prendere l’aereo
E’ una delle paure più comuni, che si manifesta al solo pensiero di dover prendere un aereo, di conseguenza chi ne soffre, evita di farlo.
Tale fobia può nascere da qualche esperienza negativa avuta durante un viaggio in aereo, ma spesso, come tutte le fobie, la causa è irrazionale e di conseguenza difficile da individuare, tuttavia, in certi casi, può nascondere la paura della dipendenza.
Spesso infatti soffrono di tale fobia, le persone che tendono a voler mantenere il controllo su tutto e che sentono la necessità di sentirsi totalmente indipendenti. Sono persone abituate a contare solo su se stesse e che fanno fatica a fidarsi degli altri e a delegare.
Questi aspetti, spesso inconsci, possono spiegare la paura di volare con la necessità di dover affidare la propria vita a un pilota e a un mezzo meccanico di cui non si ha completa fiducia, da cui si deve necessariamente dipendere.

Il Counselling: un aiuto per gestire e superare le fobie

Il Counsellor utilizza dei metodi molto efficaci per la gestione e l’eliminazione dell’ansia: innanzitutto attraverso una serie di colloqui, il professionista raccoglie informazioni sull’entità del disagio vissuto dal cliente, su come lo percepisce e le conseguenze che ne derivano, e nello specifico quali obiettivi intende raggiungere per risolvere il problema. Si andrà poi ad indagare, nel vissuto del cliente, se è rintracciabile un evento specifico, o una serie di eventi, che possano aver provocato tale stato d’ansia; il counsellor spiega poi al cliente che cos’è l’ansia, come si manifesta, e quali possono essere le strategie utili per affrontarla.
Tra i metodi utilizzati, ve ne sono alcuni che prevedono l’utilizzo di immagini mentali e di tecniche di rilassamento che lavorano direttamente a livello inconscio, trasformando quelle situazioni che provocano uno stato di preoccupazione o di ansia. Il metodo dellaDesensibilizzazione Graduale permette di affrontare la situazione temuta a piccoli passi, dando il tempo e la possibilità all’inconscio di sostituire il sentimento di paura con un’emozione di accettazione e tranquillità, in relazione alla situazione che si tendeva ad evitare. Inoltre, poiché l’ansia è spesso il risultato di rabbia accumulata nel tempo e non espressa, vengono utilizzati dei metodi che lavorano sulla rabbia repressa e che servono, da una parte, per re-indirizzare la rabbia al mittente che l’ha provocata, nella privacy della propria psiche, e dall’altra per dare al proprio bambino interiore un nuovo genitore, più protettivo. Tali metodi aiutano a diventare genitori di noi stessi, riappropriandoci in questo modo dell’ infanzia perduta e recuperando l’autostima.
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Ambiti in cui opero : 




L’ansia


Perché nasce e come si manifesta

Il termine ANSIA è un termine generico comunemente utilizzato per comprendere tutta una serie di problemi legati alla paura.
Se provare ansia in certe situazioni è assolutamente normale, in certi casi l’ansia con la sua presenza costante e insidiosa può influire negativamente sulla qualità della vita.
L’ansia può avere diverse manifestazioni:
  • apprensioni
  • preoccupazioni
  • nervosismo e timori
  • fobie
  • attacchi di panico
I sintomi fisici che le persone ansiose comunemente riportano sono:
  • tensioni muscolari e mal di schiena
  • mal di testa
  • mancanza di energia
  • nausea e problemi digestivi
  • tachicardia
  • difficoltà a dormire
  • sudorazione eccessiva
  • vertigini
  • tremori
  • sensazione di avere un peso sul cuore
  • sensazione di avere un nodo alla gola
  • difficoltà a respirare.
A livello psicologico, le persone ansiose hanno spesso difficoltà a rilassarsi, tendenza all’iperattività o tendenza alla procrastinazione, difficoltà di concentrazione e irritabilità.
Spesso uno stato d’ansia è accompagnato anche da uno stato di depressione.
L’ansia può essere causata o esacerbata da molti elementi:
  • esaurimento fisico o mentale
  • prolungati periodi di stress
  • sindrome premestruale
  • menopausa
  • traumi psicologici (presenti e passati)
  • collera repressa
  • cessato uso di tranquillanti
  • malattie
  • allergie
  • uso di stimolanti (tè, caffè, sigarette..)

Ansia costante

E’ uno stato della mente in cui si è costantemente preoccupati e spaventati, senza saperne indicare il motivo. Si ha paura di non essere abbastanza bravi, di non sapere affrontare quello che la giornata oggi ha in serbo per noi e ogni variante dalla routine quotidiana diventa straordinariamente stressante. Spesso l’ansia va di pari passo con la depressione.
L’ansia è normalmente un segno che molte cose in passato sono andate storte o che al momento si vive una situazione insostenibile. La ragione principale per cui si diventa ansiosi sono i fattori psicologici. Ma l’ansia può essere peggiorata dalle allergie, da un eccessivo consumo di alimenti che producono acidi, come il cioccolato, i dolci e altri cibi e bevande contenenti zuccheri. Allo stesso modo anche l’assunzione di droghe può lasciare un senso di ansia e paranoia, anche anni dopo aver cessato di far uso di queste sostanze.

Preoccupazione

La preoccupazione è uno stato di apprensione permanente. Una persona che ha la tendenza a preoccuparsi, già nel momento in cui, al risveglio del mattino riapre gli occhi, comincia a preoccuparsi per la giornata che deve affrontare. La mente di queste persone formula continuamente pensieri negativi, ogni situazione viene percepita in modo drammatico e ovunque ci sono problemi e difficoltà: per un errore commesso al lavoro, l’ansioso immagina subito che verrà licenziato o se accusa un piccolo malessere, si prefigura di avere una grave malattia. Mentre è normale essere apprensivi solamente per qualcosa che sta per avvenire o che avverrà fra breve, la preoccupazione è uno stato che permane, al di là della situazione: ciò significa che ci si preoccupa per un evento futuro, ci si preoccupa poi mentre l’avvenimento sta accadendo e che si continua ancora a preoccuparsi in seguito per quello che si ritiene che si avrebbe dovuto dire o fare, temendo ad esempio di aver offeso qualcuno, di aver fatto una brutta figura, o di aver commesso qualche errore. La preoccupazione quindi è una questione ben più grave dell’apprensione. Essa può riguardare le questioni più diverse: il lavoro, la salute, la situazione economica, i figli, i familiari..
La persona ansiosa è consapevole del fatto che le sue preoccupazioni sono eccessive e irrazionali, ciò nonostante non riesce a smettere di preoccuparsi.

Ansia da prestazione o paura di fallire

Generalmente, dietro un qualsiasi stato di ansia, si nasconde sempre un’altra paura più profonda: quella di non essere all’altezza della situazione, di deludere le aspettative degli altri e quindi di venire rifiutati.
Questa paura caratterizza soprattutto quella che è comunemente definita “ansia da prestazione” o “paura di fallire”. In questa categoria di paure sono incluse tutte quelle situazioni in cui è necessario dimostrare, ufficialmente e di fronte ad altre persone, le proprie doti, il proprio talento, le proprie abilità, capacità, competenze e conoscenze, come nel caso di esami, test, colloqui di lavoro, conferenze ….; in tutti questi frangenti si è dolorosamente consapevoli di essere sottoposti allo scrutinio e al giudizio altrui e, inoltre, che le proprie prestazioni verranno valutate, positivamente o meno.
Dalla mia esperienza, la paura di fallire, è legata ad un ego (bambino) che, nel passato, e’ stato ripetutamente ferito e che ha imparato ad avere paura delle conseguenze del fallimento. L’ansia si manifesta con quel costante senso di non sentirsi al sicuro, di essere minacciati dal mondo, ma di non sapere da dove o da chi proviene la percepita minaccia. Il bambino e’ vissuto a lungo e ripetutamente in un tale stato di costante minaccia e pericolo da parte di adulti dal comportamento violento e imprevedibile, che la traccia mnemonica e’ profonda e si attiva automaticamente. D’altro canto, l’ansia nasconde anche rabbia inespressa.
Infatti, il bambino non solo ha paura, ma prova anche rabbia nei confronti dei soprusi subiti da parte dell’adulto. Tuttavia, “sa” che non può permettersi di esprimere questa rabbia perchè si sente in una posizione di netta inferiorità fisica e/o psicologica rispetto all’adulto (e lo e’). Esprimere la sua frustrazione/rabbia verso l’adulto, comporterebbe abusi e violenze ancora maggiori. Il compromesso (saggio) dell’inconscio e’ quello di reprimere, proteggendo in questo modo l’incolumità del bambino. Tuttavia, nel corso della vita adulta questa rabbia repressa “spinge” per venire fuori, manifestando sintomatologie come l’ansia, o addirittura gli attacchi di panico, una manifestazione estrema dell’ansia, o le esplosioni di collera.
Uno tra i tanti casi che potrei citare come esempio è quello di Barbara, una mia cliente che, nel corso della sua vita ha sviluppato un’ansia cronica a causa dei rimproveri costanti e ripetuti da parte di un padre eccessivamente autoritario ed esigente. Barbara, come tante persone che sono ansiose, è costantemente alla ricerca di perfezione; questi individui, infatti, nutrono la convinzione inconscia, di poter essere accettati dagli altri solo se brillanti e sempre all’altezza della situazione. Ma dal momento che le aspettative che nutrono nei confronti di se stessi sono troppo alte e irrealistiche, si sentono costantemente inadeguati e non all’altezza.
Il caso di Barbara
Nel corso di due colloqui, Barbara mi riferisce di essere stata licenziata due anni fa presso l’azienda dove lavorava come impiegata e che da allora non ha più cercato lavoro, chiudendosi in casa dopo aver avuto una serie di attacchi d’ansia molto forti, al punto da sviluppare il timore di uscire di casa. Trascorre così la maggior parte del suo tempo in casa senza far niente, in quanto si sente spesso stanca e annoiata; le costa fatica fare qualsiasi cosa, soprattutto fare le pulizie di casa e’ per lei una fatica insormontabile.
Mangia in modo eccessivo, a tutte le ore del giorno, per combattere la noia e l’ansia.
Da sempre ha un sonno agitato e discontinuo, ha difficoltà ad addormentarsi e ha ripetuti risvegli durante la notte. Prende un ansiolitico, a base di benzodiazepine, prima di dormire e al bisogno, su indicazioni del suo medico di base, che glielo ha prescritto per aiutarla a gestire la sua ansia.
Riguardo alla sua infanzia, riferisce che, assieme ai suoi due fratelli minori, è cresciuta in una famiglia in cui il padre era molto severo e autoritario, emotivamente assente al punto da ” non averle mai fatto una carezza e non averle mai detto ti voglio bene”, citando le sue testuali parole, e mentre me lo dice le scendono le lacrime.
Tutti i membri della famiglia hanno sempre avuto paura del padre, compresa la madre di Barbara. Il padre esigeva che i figli eccellessero a scuola. A cena li interrogava su come erano andati a scuola e insisteva per controllare lo svolgimento dei compiti per casa.
Se Barbara era in difficoltà con lo svolgimento dei compiti, il padre le spiegava come fare e si aspettava che lei capisse al volo. Se ciò non accadeva, il padre si arrabbiava e iniziava ad urlare, con il risultato che Barbara si sentiva ancora più agitata e confusa. Di conseguenza si è sempre impegnata molto a scuola per il timore che il padre si arrabbiasse, spesso rinunciando anche ad uscire con i coetanei che la prendevano in giro chiamandola ” secchiona”.
Più per compiacere suo padre, che per scelta personale, Barbara si e’ iscritta all’università e si è laureata con il massimo dei voti in Economia e Commercio,  a 24 anni.
4 mesi dopo la laurea e’ stata assunta come responsabile amministrativa presso uno studio dentistico dove ha lavorato per 6 anni.
All’età di 30 anni ha iniziato a lavorare sempre nel settore dell’amministrazione di uno studio notarile per 4 anni e poi presso un’ azienda di Napoli, dove e’ stata licenziata ” per esubero del personale”, senza alcun preavviso, circa due anni fa.
Barbara dice di essere cresciuta con un’ansia costante che si e’ portata dentro anche nella vita adulta. Ha sempre sentito il bisogno di svolgere il proprio lavoro alla perfezione, per quanto non le piacesse, in quanto noioso e ripetitivo, e si sentiva turbata quando questo non era possibile o qualcuno le faceva notare che aveva commesso un errore. Questo le causava notti insonni e un’ ansia persistente, così, dopo essere stata licenziata nell’azienda presso cui lavorava, due anni fa, non ha più avuto il coraggio di cercare un nuovo lavoro, ma si e’ chiusa in casa cadendo in uno stato di depressione.

Il Counselling: un aiuto per gestire l’ansia

Il Counsellor utilizza dei metodi molto efficaci per la gestione e l’eliminazione dell’ansia: innanzitutto attraverso una serie di colloqui, il counsellor raccoglie informazioni sull’entità del disagio vissuto dal cliente, su come lo percepisce e le conseguenze che ne derivano, e nello specifico quali obiettivi intende raggiungere per risolvere il problema. Si andrà poi ad indagare, nel vissuto del cliente, se è rintracciabile un evento specifico, o una serie di eventi, che possano aver provocato tale stato d’ansia; il counsellor spiega poi al cliente che cos’è l’ansia, come si manifesta, e quali possono essere le strategie utili per affrontarla.
Tra i metodi utilizzati, ve ne sono alcuni che prevedono l’utilizzo di immagini mentali e di tecniche di rilassamento che lavorano direttamente a livello inconscio, trasformando quelle situazioni che provocano uno stato di preoccupazione o di ansia. Il metodo della Desensibilizzazione Graduale permette di affrontare la situazione temuta a piccoli passi, dando il tempo e la possibilità all’inconscio di sostituire il sentimento di paura con un’emozione di accettazione e tranquillità, in relazione alla situazione che si tendeva ad evitare. Inoltre, poiché l’ansia è spesso il risultato di rabbia accumulata nel tempo e non espressa, vengono utilizzati dei metodi che lavorano sulla rabbia repressa e che servono, da una parte, per re-indirizzare la rabbia al mittente che l’ha provocata, nella privacy della propria psiche, e dall’altra per dare al proprio bambino interiore un nuovo genitore, più protettivo. Tali metodi aiutano a diventare genitori di noi stessi, riappropriandoci in questo modo dell’ infanzia perduta e recuperando l’autostima.
Scopri come vincere l’ansia, 

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Vincenzo D’Angelo: Counselor ad approccio sistemico integrato 
all’armonia posturoemozionale funzionale, Life-Mental Coach, Naturologo , 
operatore shiatsu, massaggiatore olistico, operatore Wassage.
conduttore di gruppi di E-Motion e Yoga della Risata 
TEL.  :  338-8809519 
professionista disciplinato ai sensi della legge 4/2013.
 del 14 gennaio 2013, pubblicata nella GU n. 22 del 26/01/2013" 





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La dipendenza



Per dipendenza si intende un’alterazione del comportamento, che consiste nella ricerca irrefrenabile ed eccessiva, di tipo psicologico o fisiologico, di una determinata sostanza o comportamento.

Esistono svariate forme di dipendenza:
  • da sostanze, come ALCOLISMO E TOSSICODIPENDENZA;
  • alimentari, come BULIMIA e altri disturbi alimentari;
  • affettive, come la CODIPENDENZA
  • comportamentali, come IL GIOCO D’AZZARDO
  • sessuali, come LA PORNODIPENDENZA (o cyber-sex addiction)
Nel caso di una dipendenza da sostanza, ad esempio droga o alcool, con il protrarsi del tempo, si verifica il fenomeno dell’ASSUEFAZIONE, ossia la necessità di aumentarne le dosi per ottenere lo stesso effetto precedente e la comparsa dei sintomi tipici dellaSINDROME DA ASTINENZA in caso di mancata assunzione.
Ne consegue che chi soffre di una dipendenza perde progressivamente il controllo dei propri pensieri e dei propri comportamenti, in quanto il tempo e le energie psicofisiche del soggetto vengono sempre più utilizzate nella spasmodica ricerca di una determinata sostanza o situazione. Si verifica dunque anche una compromissione sempre più grave delle relazioni sociali, lavorative, familiari e affettive, insieme ad un notevole stato d’ansia, sentimenti di vergogna, senso di colpa e mancanza di autostima.
Chi soffre di qualche forma di dipendenza, arriva spesso al punto di volersene liberare, ma accade poi che ci si accorge che la sola forza di volontà non è sufficiente per riuscirci.
Capita anche che, chi è riuscito a vincere la propria dipendenza, o da solo o con l’aiuto di un professionista, spesso finisce con il sostituire la vecchia dipendenza con una nuova: per esempio, la maggior parte delle persone che smettono di fumare spesso ingrassano, perchè sostituiscono le sigarette con il cibo. Oppure, persone che hanno finalmente abbandonato la loro dipendenza dall’alcool, passano all’uso smodato di sigarette e di caffè.
Questo accade perchè, come in tutti questi casi, la dipendenza non è stata vinta, ma semplicemente spostata su qualcos’altro.

La causa di una dipendenza

Dalla mia esperienza professionale, spesso le persone che soffrono di una qualche forma di dipendenza, tendono a definirla come una cattiva abitudine, una mancanza di volontà, un condizionamento che deriva da qualcuno che in famiglia ne soffre o un comportamento ereditario.
Tutte queste “cause ” vengono invocate perchè appaiono essere una buona spiegazione del comportamento indesiderato.
Ma la vera causa di tutte le dipendenze è un’altra, ed è l’ANSIA, un costante sentimento di malessere che in qualche modo viene momentaneamente tamponato con l’assunzione di una qualche sostanza o mettendo in atto un determinato comportamento.
Quindi, dietro il bisogno di mangiare, di bere, di fumare troppo, o di assumere droghe, c’è sempre la necessità di trovare pace a un certo livello di malessere interiore.
Poichè l’ansia è la causa di tutte le dipendenze, spesso le persone aumentano il consumo di una sostanza o un determinato comportamento, quando si trovano in situazioni di maggiore stress e quindi di ansia. E infatti, se vengono private della sostanza dalla quale dipendono, diventano molto nervose.
Chi è dipendente spesso ricorre alla sostanza o al comportamento da cui è dipendente per calmare la propria ansia, per rilassarsi, per fare una pausa.. Quindi è sempre l’ansia che lo spinge, consapevolmente o inconsapevolmente, verso la sostanza o il comportamento. Il problema è che, quella determinata sostanza o quel determinato comportamento, tamponano l’ansia solo per un breve spazio di tempo. Così, quando l’effetto tranquillizzante finisce, l’ansia ritorna di nuovo e il dipendente è costretto a ripetere l’assunzione della sostanza o del comportamento per ritrovare sollievo. Si stabilisce così un circolo vizioso in cui la persona rimane intrappolata.
Ne consegue che, per superare e liberarsi definitivamente da un a dipendenza, è necessario affrontare ed elaborare gli eventi specifici che sono all’origine dell’ansia.
Se anche tu hai problemi di dipendenza,

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Conosci te stesso


Nel mio lavoro quotidiano con le persone, riscontro sempre più frequentemente una problematica che accomuna non solo molti giovani ma anche individui di ogni età, sesso e di ogni condizione sociale: la mancanza di sicurezza interiore, dovuta essenzialmente ad una quasi totale inconsapevolezza di chi si è realmente; questo inevitabilmente porta ad una difficile comprensione dei propri valori e degli obiettivi da realizzare.
Sono infatti molte le persone insoddisfatte e infelici in quanto non accettano alcuni aspetti del loro carattere o della loro personalità o che, non conoscendoli, non riescono a relazionarsi in modo adeguato nell’ambiente lavorativo o nel privato.
Oggi pertanto diventa fondamentale per chi intraprende un percorso di crescita personale e per superare un disagio di qualsiasi natura, effettuare un percorso di conoscenza di sé, finalizzato alla comprensione dei propri limiti ma anche dei propri talenti e delle proprie doti innate. E’ solo in infatti attraverso la scoperta della propria identità, che è possibile costruirsi una buona autostima e sentirsi soddisfatti e felici.
In ognuno di noi c’è un mondo interiore, più vero e autentico del mondo esteriore che i nostri sensi percepiscono, spesso deviante e illusorio. Un mondo interiore che vale la pena conoscere in quanto rappresenta per ognuno quella felicità più grande che tendiamo a ricercare all’esterno anziché nel nostro intimo.
Attraverso la consapevolezza di chi siamo veramente è possibile accettarsi e abbandonare più facilmente le maschere sociali e gli schemi mentali che ci imprigionano in relazioni conflittuali e in comportamenti negativi.
Il counsellor ha un ruolo fondamentale nell’aiutare il cliente a intraprendere questo importante processo di autoconoscenza, in quanto nessun disagio e nessun problema si può risolvere a prescindere da questo.
Il suo ruolo consiste quindi nell’aiutare il cliente a conoscersi in tutti gli aspetti fondamentali del proprio carattere e della propria personalità, portandolo ad accettarsi esattamente per quello che è, con i propri limiti e difetti ma anche con i propri pregi e le proprie potenzialità. Il passo successivo consiste poi nel far emergere nel cliente la motivazione a lavorare sui suoi punti deboli e sui suoi possibili conflitti con consapevolezza.
Solo trasformando i propri limiti e gli aspetti negativi del proprio carattere in qualità e comportamenti positivi è possibile infatti raggiungere un senso di pace interiore di sicurezza e di soddisfazioni personale duraturi e stabili.
Per fare questo, andando oltre quello che è l’intervento di un classico psicoterapeuta, il counsellor ti aiuta concretamente a:
  • capire chi sei veramente, attraverso un’analisi dei tuoi aspetti psicologici più importanti e della tua personalità;
  • accettarti per quello che sei, insegnandoti ad apprezzare gli aspetti più positivi del tuo carattere e della tua individualità: riconoscere infatti di possedere doti e capacità fino ad allora ignorate è fondamentale per acquisire fiducia in se stessi e trasformare gli aspetti negativi.
  • esercitare un maggior controllo sui tuoi comportamenti e sulle tue reazioni consce ed inconsce attraverso l’osservazione costante dei tuoi pensieri, delle tue convinzioni e dei tuoi atteggiamenti;
  • intraprendere i comportamenti più adeguati ad ogni situazione correggendo gli atteggiamenti e i comportamenti conflittuali.
Migliora la fiducia in te stesso, con il  tuo  Counsellor di fiducia !


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Maternità e post partum


Miti da sfatare sulla maternità

La nascita di un bambino è comunemente considerato un avvenimento gioioso e qualcosa di straordinario. Questo in parte è vero, ma non è solo così, e molte donne purtroppo sperimentano anche il lato più oscuro e difficoltoso dell’esperienza della maternità.
Oggi è ancora troppo diffuso lo stereotipo per cui “a una madre basta il suo bambino per essere felice”, questo è un mito da sfatare, perché non tiene assolutamente in considerazione cosa realmente accade nel corpo e nella mente di una donna che ha dato alla luce un piccolo essere umano.
Anche per quelle madri che hanno la fortuna di poter contare su un’importante rete di supporto costituita da genitori, parenti e amici pronti a prestare aiuto, spesso il momento del parto è vissuto come uno shock, senza dimenticare lo stress derivante dalla nuova maternità: ora il bambino tanto atteso è arrivato e con lui si accumulano tanti interrogativi e tante nuove mansioni relative al nuovo ruolo, per cui le cose che sembravano le più semplici e naturali all’improvviso possono venire percepite come una montagna da scalare.
Per la maggior parte delle donne infatti il periodo successivo al parto è una fase della vita molto difficile, fatta di tensioni, preoccupazioni, di un cocktail sconcertante di emozioni dettate da violenti sbalzi di umore che vanno dall’apatia alla depressione: alcune donne dopo il parto non sentono più niente, nessuna emozione, nessuna gioia, ma quello che prevale è un sentimento schiacciante di inadeguatezza e di paura, una grande paura di non essere all’altezza della situazione, per cui finisce che la madre non dorme e non mangia, si sente sempre triste e più il bimbo piange più si sente inadeguata.
Anche se molte donne non lo sanno, tutto questo è normale ed ha anche origini fisiche, in quanto i livelli di estrogeno e progesterone così come quello delle endorfine che hanno contribuito a dare gioia e benessere per tutta la gravidanza dopo il parto calano drasticamente.
Oltre a questo c’è anche da dire che partorire non basta per diventare madre: come alcuni studi recenti hanno dimostrato, una madre su dieci ha reali difficoltà nel creare una relazione con il proprio bambino nel primo anno di vita. Infatti, l’amore per il figlio spesso non è disgiunto da un sentimento di rabbia perché ogni figlio si nutre, soprattutto nei primi mesi, del sacrificio della madre: sacrificio del suo corpo, del suo tempo, del suo spazio, del sonno, delle relazioni affettive, del suo lavoro.
Anche se questi stati d’animo in una certa misura sono presenti in ogni maternità, molte donne non ne sono consapevoli e soffrono in silenzio tra le mura di casa perché si vergognano, perché sentono che non amare sin da subito incondizionatamente il proprio bambino è un’esperienza terribile da provare e impossibile da condividere ed è questa solitudine, unita ai violenti sbalzi di umore, che può diventare un profondo disagio psicologico fino a trasformarsi in quella malattia comunemente chiamata depressione post partum, che se non individuata e affrontata al suo emergere può aggravarsi con il passare del tempo con conseguenze peggiori.

Cosa può fare il counselling per le neo mamme

L’intervento di counselling in questi casi è utile per aiutare le neo mamme a diventare consapevoli del nuovo ruolo e delle nuove responsabilità che questo comporta. Alle donne che alle prese con una prima esperienza di maternità nutrono sentimenti di paura e di inadeguatezza tali da indurle a pensare di non farcela ad essere delle buone madri per i loro figli, viene data la possibilità di esprimere i propri disagi, i propri pensieri e i propri sentimenti di inadeguatezza.
Il counsellor, grazie alla sua capacità di ascolto e alla sua partecipazione attiva aiuta così le neo mamme a mettere ordine a un quadro emozionale confuso e disorientante e ad acquistare fiducia in se stesse in modo da vivere la maternità con più serenità e ottimismo.
Per scoprire come il Counselling può aiutarti nella vita di mamma, chiama il tuo  Counsellor di fiducia !

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Il Counseling di orientamento professionale: a cosa serve?





Counseling per l'orientamento professionale è un servizio che risponde ad una necessità sociale sempre più pressante. Può capitare, nella vita di un adulto, di non sapere quali scelte compiere riguardo il proseguimento nella propria sfera professionale, perché ci si trova all’inizio della carriera o a una svolta importante nel mondo del lavoro, oppure a causa di qualche disagio legato al contesto lavorativo o anche di fronte a un licenziamento.
Un supporto orientativo è indicato nei casi in cui il soggetto è motivato personalmente a dare una svolta alla propria vita lavorativa, perché desidera realizzare un progetto, vuole promuovere se stesso e migliorarsi nel lavoro al fine della propria carriera, o solo perché desidera cambiare contesto.
Diversi sono gli interessi di chi ha necessità di reinserirsi nel mondo del lavoro perchè ne è costretto, ha subìto pressioni esterne e vive una condizione di deprivazione lavorativa. In questo caso il supporto professionale sarà volto all’attenzione sulle risorse della persona, all’aumento delle stesse attraverso la formazione e a pianificare le strategie di reinserimento nel mondo lavorativo.
orientamento professionale
Il counseling di orientamento professionale integra l’attenzione alla persona e al contesto sociale in cui vive ed è un valido supporto  per individuare le caratteristiche presenti nelle persone ed aumentare la capacità di indirizzarle verso la possibilità di successo più probabile.
Il percorso orientativo professionale è un percorso di ricerca basato sulle motivazioni della persona, sull’autovalutazione e sulla capacità di scegliere, perché saper riconoscere, esprimere e valorizzare le proprie risorse è l’obiettivo principale della conoscenza di sé per affermare se stessi nel mondo del lavoro.

Ritieni di avere bisogno di un orientamento professionale? chiama il tuo  Counsellor di fiducia !

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